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martedì 26 aprile 2011

Consiglio letterario e musicale

Mi hanno regalato un libro su Milano. Si vede che la mia ossessione porta i suoi frutti.
E' la mia lettura serale da qualche giorno.
Non riesco a dormire, sia l'ora che sia, se non leggo almeno una decina di pagine di qualsiasi cosa. Cerco di scegliere con cura e devo dire che, nonostante non sia stato selezionato, il libro che mi è capitato fra le mani mi appassiona.
"Milano calibro 9". Lui, Scerbanenco, è nato a Kiev e vissuto a milano tra i cinquanta e i sessanta.
Una città tutta gangster, pistole e affari sporchi, la sua. Scura, difficile, cattiva. Ventidue racconti noir, rompifiato, da leggere uno dietro l'altro. L'amaro che lasciano spinge a proseguire. Non c'è posto per i buoni sentimenti, solo fruscio di pallottole, sangue e uomini grossi in doppiopetto. La parte oscura della forza, insomma.
Non mi dispiace in fondo, immergermi per qualche ora al giorno in questa versione d'altri tempi della mia Milano.
Scopro, leggendo sull'autore, che ha scritto altre cose. Altri racconti sparatutto. Mi cade l'occhio su un titolo famigliare: I milanesi ammazzano al sabato.
Titolo, appena modificato, del disco del 2008 degli Afterhours, gruppo milanese per eccellenza. Senza sforzo eletto miglior lavoro della band dalla sottoscritta.
14 ricette di quotidiana macabra felicità, sottotitolo che introduce all'ascolto. 14 canzoni che lasciano in bocca lo stesso amaro dei racconti del bravo Scerbanenco. Comprendo appieno e appoggio l'ispirazione letteraria di Agnelli e compagni. Si saranno trovati come me immersi in un alone misterioso e affascinante, rapiti dal turbine dei crimini e dei delitti? Avranno pensato che quell'aria pesante ristagna ancora sulla città, che la nasconde sotto strati di palliette e vetrine scintillanti, come si fa con la polvere sotto il tappeto?
Avranno avuto l'impressione che il libro parli di ognuno di noi? Degli spazi scuri che manteniamo sotto controllo, delle ombre della bestia umana.
Se avete voglia di tirare fuori un po' di scheletri dall'armadio, ci sono già un libro e un cd che vi aspettano per aiutarvi nella difficile risalita in superficie della parte cattiva di voi. ;)

mercoledì 20 aprile 2011

Breaking news

Due aggiornamenti.
Fatta la spesa da mistofrutta. Essere serviti con gentilezza e chiacchierare con il commesso simpaticissimo non ha prezzo. L'esperienza cancella ogni ricordo delle avventure supermercatifere. Finalmente ho trovato un nuovo amore, abbandono volentieri il mio vecchio compagno comodo ma noioso, che mi tenevo solo per comodità.
Rettifica: la domenica è chiuso! Avevo letto male. Il sabato però apertissimo!!

Nella stanza delle bici del mio palazzo, dove fino a qualche settimana fa riposava solitaria la mia Storta (eh sì, si chiama così...potete anche cercare di indovinare il perchè) sono apparse molte altre meravigliose due ruote e tre minuscole biciclettine per bambini con le rotelline. Tenerezza infinita. Giovani ciclisti urbani crescono. :)

E il quattro vien da sè...

Ci sono molti luoghi che diamo totalmente per scontati. Angoli che pensiamo di conoscere solo per il fatto di esserci passati molte volte.
Sapevo da tempo che Piazza Mercanti aveva qualcosa da mostrarmi, anzi da farmi ascoltare, ma avevo sempre procrastinato.
“Lo farò” mi dicevo. E intanto ci passavo ogni giorno davanti, girandomi dall'altra parte fischiettando, ignorando la mia lacuna.
Devo dire la verità, mi ci hanno trascinato. Io avrei rimandato ancora.
Così eccomi. Cambia un bel po' la prospettiva, da sotto il colonnato. La strada sembra lontana, scura, come se ci fosse un vetro a separarla da me.
Ci si accorge subito che l'acustica è il pezzo forte. Risuona tutto come microfonato, e la tua voce ti sorprende.
Siamo pronti per dare il via al miracolo. Io da un lato della piazza, la mia spalla (nel senso di aiutante nelle esplorazioni!) dal lato opposto. Facce rivolte verso il muro e... “Cloe, mi senti?” Un bisbiglio sembra provenire dalla parete stessa, come se un cavaliere errante o una donna condannata per stregoneria fossero stati murati vivi.
“Wow, allora è vero!!!” sussurro piano. Rimaniamo lì a dirci quanto è incredibile per qualche minuto.
Poi soddisfatta e sorridente mi faccio un altro giretto in tondo, sotto la luce gialla dei faretti.
“Per cos'è che utilizzavano il trucco? Per parlarsi tra amanti?”
“No, erano i Mercanti che contrattavano in segreto.” rispondo sovrappensiero, ho letto con attenzione la pagina dedicata.
“In effetti, si chiama Piazza dei Mercanti!”
Mi metto a pensare agli amanti.
Gli amanti. Quanto sarebbe originale una dichiarazione d'amore così? Dici alla tua bella o bello di mettersi in posizione e poi tiri fuori parole d'altri tempi per creare un momento che, per lo meno, anche se va male, lei/lui non si dimenticherà.
Spesso a Milano non si respira proprio tutto sto romanticismo. Anche la seduzione e i rituali amorosi cambiano alla velocità della luce.
Eppure la città offre spunti meravigliosi, nicchie private, alcove segrete, piccoli angoli incantati.
Basta cercare, basta cercare!

venerdì 15 aprile 2011

TRE PIù

Una delle 101 famose cose da fare: la settimana del Salone del Mobile.
Già già, è arrivata e si è portata dietro una quantità inimmaginabile di turisti da tutto il mondo e, a quanto pare, si è portata via la primavera.
Se ci sono tre eventi che aspetto durante l'anno milanese uno è senza dubbio questo. Gli altri due sono: Fa la cosa giusta! (vedi qualche post fa...) e il Milano film meeting (in settembre, ho già l'acquolina!). 
Il Salone è senza dubbio, dei tre, l'evento più ricercato, più glamour, più modaiolo e internazionale. E' un po' la mia fashion week, visto che malsopporto modelle e cocktail party super privati.
La verità è che, non essendo addetta ai lavori, il Salone propriamente detto l'ho visitato una volta sola. E credo che per i non esperti sia invisitabile! Una scarpinata da vesciche ai piedi, una specie di labirinto di lampade, divani, oggetti di dubbio utilizzo, pentole ed elettrodomestici che spesso hanno l'aria di voler fare tutto tranne quello per cui sono stati creati, anzi disegnati. Eh, sì...tutto parte da un disegno e da un designer. Ho un'idea del designer molto molto precisa. La mia migliore amica Fra fa la designer. A volte quando parla mi perdo.
Abbiamo pure vissuto insieme per due anni e in definitiva questo è quello che ho imparato sulla categoria:
  • I designer di vestono in modo strano. 
    La Fra è piuttosto canonica nell'abbigliamento, almeno in relazione ad alcuni suoi amici che mi è capitato di bazzicare. Negli anni ho potuto osservare: l'utilizzo di scotch nero applicato al capezzolo al posto della desueta t-shirt, camicie e pantaloni quadrettati che neanche Pinocchio il primo giorno di scuola, cappelli cappelli cappelli, meglio se assurdi e anche in luoghi chiusi, accessori da far invidia a Lady Gaga. Il fatto è che moltissimi di loro, si disegnano e si cuciono da soli i vestiti! Sono dei creativi puri, con una mente brillante e visionaria. Ho sempre provato molta invidia per la loro autosufficienza sartoriale, meno per l'astrattezza dei risultati!
  • I designer usano parole strane. 
    Quando io e Fra vivevamo insieme, in periodi prestabiliti, tre o quattro suoi compagni di corso di trasferivano a casa nostra. Era il momento del progetto di gruppo. In definitiva, studenti emaciati che, mezzi inghiottiti dal divano con i rispettivi mac sulle ginocchia, si spremono le meningi (a tratti avrei giurato di vedere del fumo uscire dalle orecchie) per creare. Cosa? Oggetti, eventi, servizi (sia igienici che non), strani imballaggi, di tutto un po'.
    Per un paio di settimane all'anno sceglievano una casa dove rintanarsi e non ne uscivano fino ad impresa terminata. Immaginatevi pacchetti di patatine come unica fonte di sostentamento, posacenere pieni di cicche fino ad esplodere e musica elettronica per conciliare la concentrazione (se siete come me e necessitate di silenzio o, se proprio, dei suoni della natura anche solo per scrivere un biglietto di auguri, non potrete mai capire fino in fondo). Osservarli è stato interessante e la cosa che più mi ha colpito sono state le parole. Sì, le parole che a tratti captavo passando per il corridoio, o fermandomi a fumare una sigaretta con loro. I grandi classici erano gli ossimori: la “superficie profonda”, oppure la “freschezza infuocata”. Poi c'erano i concetti fondamentali: “il sogno che diventa materia e si spalma sulla realtà corrente per renderla più usufruibile dall'uomo moderno”. Eh??
    E infine l'insalata di parole. Lemmi dei più disparati campi semantici accostati in un guazzabuglio dall'aspetto indecifrabile: “miglioramento dei sinonimi di spazio”, “scenario del progetto di industrializzazione rapida”, “italian fashion design in evolution”.
    Per me era come entrare in un mondo nuovo. Non capivo mezza parola, cioè capivo ogni parola ma senza potergli dare un senso compiuto. Era bello, spegnevo il cervello e mi lasciavo trasportare dalle immagini che suscitavano quei bei suoni ordinati in modo anomalo.
  • I designer sono festaioli, anzi i più festaioli di tutti. 
    Gareggiano con gli stilisti (che poi fanno un po' la stessa roba, ma non ditelo mai a nessuna delle due categorie!). Sono sempre i primi a sapere di feste, party ed eventi e anche i più affidabili nella sottile arte dell'imbuco. Saltare le siepi, i cancelli, fare la faccia di bronzo coi buttafuori, sgusciare veloci tra la folla per non frasi riacciuffare è il loro pane quotidiano. Affidatevi a un designer e il divertimento è sempre assicurato, chiaramente se vi piacciono mondanità e chiccoserie. In ogni caso, vi consiglio una scampagnata con queste creature affascinanti, ne vale la pena.
Tornando a noi, durante la settimana del Salone la cosa migliore è il Fuorisalone.
Come mi ha insegnato la guru, il Salone esiste da cinquant'anni, mentre gli allestimenti esterni da molto meno. Secondo la Fra, addetta ai lavori e quindi fonte autorevole, da cinque o sei anni.
E' il Fuorisalone che rende Milano durante questa settimana una meravigliosa girandola colorata, un tornado di idee, idiomi e culture che si incontrano. Chi non espone al Salone, tempio immacolato delle grandi firme e degli artisti arrivati, può esporre in giro per la città e mostrare a tutti il proprio lavoro gratuitamente.
Milano si trasforma e ogni angolo si arricchisce di bellezza.
I designer pascolano felici, li riconoscerete dai cappelli o dagli occhiali (lenti enormi, montatura enorme, possibilmente di colori fluo). Una grande festa che dura una settimana.
Nonostante sia appena nato, il Fuorisalone evolve ogni anno e cambia, si adatta alla città, si misura con essa e poi cresce, matura.
Gli angoli della metropoli sottoposti a questa occupazione forzata dell'arte (che finalmente si fa spazio a gomitate tra cemento e mercato) sono sempre di più e meglio organizzati.
Un po' di amarezza per la crescente prepotenza delle feste private che la sera impediscono a poveri diavoli, quali la sottoscritta, di accedere a molti degli allestimenti in programma e per la sparizione dei mille gadget offerti durante le prime edizioni.
Insomma un Fuorisalone sempre più privato e avaro, ma sempre stimolante e irrinunciabile a chiunque viva a Milano o dintorni. I giapponesi si fanno 12 ore di volo pur di non perdersi questo momento!
Non fatevi scappare Ventura Lambrate e gli allestimenti in Brera. Se avete poco tempo, lasciate stare via Tortona, ribattezzata per l'occasione via Tortura! Per percorrerla tutta all'ora dell'aperitivo ci vogliono almeno un paio d'ore che passerete per lo più sgomitando per farvi spazio.
Un piccolo consiglio. Tra le 20 e le 23 di stasera passate da Piazza San Fedele. C'è un bosco molto particolare che vi lascerà senza parole!
Buon week end di Fuorisalone a tutti!

martedì 12 aprile 2011

Colazione da Tiffany

Se si vuole, a Milano, c'è sempre qualcosa da fare.
Ogni sera ci sono almeno: uno spettacolo teatrale, un vecchio film, una mostra e un locale che valgono la pena. Senza contare gli eventi speciali e gli appuntamenti settimanali irrinunciabili (vedi birra a tre euro all'East End il lunedì).
Per i milanesi è scontato che sia così, ma per me che provengo dalle lande desolate del freddo nord bergamasco è stata una scoperta alquanto affascinante. Una specie di dipendenza da eventi. Per i primi due anni dal trasferimento nella mia piccola grande mela non riuscivo a passare una sera in casa. Tutta una città da esplorare! Prima i posti più rinomati, poi quelli più antichi, quelli all'ultima moda e infine quelli miei, che avevo scoperto per caso o dopo lunghe ricerche.
Ma a Milano, se c'è una sensazione bella e famigliare, è proprio quella di aprire il giornale la mattina in metro, o davanti ad una tazza di cappuccino e chiedersi “Cosa NON farò stasera?”.
E' così rilassante sapere che il mondo continua ad impazzire anche senza di noi, che si può scendere dalla giostra, riposarsi un po' e poi risalirci quando si vuole.
Ieri sera, dopo aver valutato le proposte della città, decidiamo di rimanere in casa (anche in vista della settimana del fuori salone che sta per cominciare, e sarà campale!!).
Io e le ragazze, una cena frugale (insalata, sottaceti, patatine del sacchetto), le pulizie e un film. Mica un filmetto qualunque. Casablanca, classico tra i classici.
Fuori Milano continua ad urlare, ma noi siamo già in Marocco, con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman.
In salotto abbiamo una collezione di locandine di vecchie pellicole. Ci fanno sentire un po' intellettuali e un po' retrò. Audrey ci osserva con il diadema di diamanti in testa, vicino a lei ci sono Merilyn e Charlot. Si litigano lo spazio grande sulla parete. Casablanca occupa solo un angolino, ma, non per questo, un posto meno ambito nelle nostre top ten.
A metà film ci accorgiamo che la gatta è sparita. Interrompiamo il nostro soggiorno nella terra dei Faraoni per cercarla. Quattro pazze che girano prima per casa e poi per il palazzo chiamando: “Gatto! Gatto!!”. La ritroviamo al pianterreno impaurita e rannicchiata in un angolo. Dev'essere scappata fuori quando siamo scese a buttare la spazzatura.
Alla scena manca solo Peppard che ci abbraccia tutte quante sotto una pioggia battente.
Torniamo, gatto compreso, sul divano a goderci la fine della storia, a chiedere a Sam di suonarla ancora. Guardo fuori dalla finestra. Vedo il solito panorama. Tetti a perdita d'occhio e mille finestre illuminate. Tutto è ancora vivo, il macchinario funziona, la giostra continua a girare.
Che sollievo!

domenica 10 aprile 2011

E DUE...


L’impresa di questa settimana era facile facile. Un aperitivo.
Nella magica Bibbia erano riportati tre locali storici della Milano da bere. Il Bar Basso, il Magenta e il Jamaica. La guru diceva di sceglierne uno dei tre e di godersi uno spritz o un negroni sbagliato in santa pace.
Considerando che al Bar Basso ci ero già stata un bel po’ di volte, che il Magenta l’avevo già visto (e poi mi inibiva un po’ il fatto che a una certa ora parte il Coyote Ugly: ragazze sul bancone che versano da bere direttamente in gola agli avventori…specifico, ragazze clienti!), ho optato per il Jamaica, rinomatissimo e mai visto.
Fondato nel 1911, luogo di ritrovo dei bohemien della città, degli scapigliati e degli artisti, fossero essi di fama mondiale o giocolieri di piazza. L’idea era quella di immergersi in un posto che ha visto passare così tanto estro e respirarne un po’ l’aria (sai mai che poi l’estro si impossessi anche di me!).
E ce l’ha tutta la faccia di averne viste di ogni colore, questo localino piccolino, con una terrazza sulla strada, nel bel mezzo del quartiere degli artisti. Via Brera 12, per l’esattezza. Più posizione strategica di così…
Il bancone di marmo altissimo, le mille bottiglie appoggiate all’enorme specchio alle spalle del barista, che ricorda così tanto quel quadro di Manet, quello con la barista che guarda verso la sala… Le bar de folies-bergère, ecco! Tutto ha cento anni e li dimostra. Le piastrelle ai muri fino al soffitto lo fanno sembrare, in alcuni angoli, una gastronomia d’altri tempi. E in effetti al Jamaica di mangia sempre. Non ci sono orari, stupide regole o menu per il pranzo. Il Jamaica offre le stesse cose da tempo immemorabile e, come un bar del dopoguerra (dei dopoguerra, visto che li ha visti entrambi!) che si rispetti, non nega un piatto di pasta a nessuno, anche fossero le tre del mattino.
La chicca è il giornale attaccato ad un’asta di legno, tipo bandiera. Forse è il caso di spiegarmi meglio, visto che mi son dovuta far illustrare il perché e il percome. Invece di lasciare i giornali su un tavolino perché la gente li possa leggere, al Jamaica si inserisce la piega del quotidiano nella scanalatura di un’asta lunga un metro circa, con un anello sulla cima, per appenderli al muro. Così appesi si possono sfogliare agevolmente senza bisogno di inventarsi nuovi origami e senza che si scombinino le pagine (che poi uno vuole la pagina sportiva ed è sempre quella che non torna mai al suo posto!). Chissà perché le barre da giornale (così le ho battezzate) sono sparite dalla circolazione? Mi sembrano geniali!
Bevendo uno Spritz eccezionale e chiacchierando di cucina e di arte (e di cosa vuoi chiacchierare in un posto così??) noto una cosa molto carina e rarissima a Milano. La forbice di età degli avventori è di almeno cinquant’anni. Matricole universitarie di non più di vent’anni affollano la terrazza, fanno chiasso ed entrano a chiedere da bere a plotoni di dieci alla volta. Signori distinti sulla cinquantina siedono all’interno sorseggiando del vino e, a tratti, fanno più rumore delle matricole. Al bancone e qua e là nel locale coppie di settantenni che si tengono per mano, vecchietti che portano a spasso il cane e si fermano qui per farsi un bianchino. Mi piace pensare che la clientela affezionata sia rimasta la stessa sempre e che i ventenni di allora sono i settantenni di oggi, che dentro il bar si sono incontrati, hanno bevuto, hanno giocato a carte e si sono innamorati.

Milano cambia alla velocità della luce. Un posto che ha visto due guerre e molta acqua passare sotto ai ponti e che offre il prosciutto crudo a qualunque ora, che si tiene la sua clientela fissa senza troppe smancerie o offerte speciali è raro come l’insalata russa nei buffet gratuiti.
Il mantenersi autentici è un grandissimo lusso, in questa città.
Quindi, un brindisi al Jamaica. Cin Cin all’autenticità, con l’augurio di rivederlo così tra altri cento anni. Salute!

mercoledì 6 aprile 2011

Donne, è arrivato l'arrotino!

Fare la spesa mi angoscia sempre un po'.
A Milano c'è un supermercato ogni cinquanta metri. Alcuni grandi con corsie infinite e prodotti di tutte le marche a perdita d'occhio, altri piccoli e famigliari, di quartiere.
Comodi e sempre a disposizione. Carrello, calcolatrice alla mano per valutare tutte le offerte, coda alla cassa e compilazione del modulo per la tessera della spesa-amica, per cercare di ottenere i tremila punti necessari per portarsi a casa la pirofila di Gatto Silvestro o il frullatore di Hello Kitty.
I cari vecchi negozietti specializzati sono in via di estinzione. Sono dispersivi, alcuni mi hanno detto. 
Ma non era più umano andare dal macellaio che con un bel sorriso chiedeva: “Sono due etti e mezzo, lascio?” e che faceva arrossire le signore coi suoi commenti coloriti? Il negoziante vicino di casa, che ti conosceva per nome, che aveva studiato i tuoi gusti e ti faceva assaggiare le novità appena arrivate.
L'esperienza di farsi il giro obbligatorio cominciando dal panettiere e finendo col fruttivendolo, mia sorella, che ha dieci anni meno di me, non sa nemmeno cosa sia. Persino nel mio villaggetto ai piedi delle montagne i piccoli esercizi non hanno resistito, soppiantati da centri commerciali con tanto di cinema multisala e ristoranti di tutte le etnie compresi, figuriamoci nella Big City (nomignolo per Milano coniato dai miei amici del bar del paesino!).
Girovagando in bicicletta ho provato a cercare qualche superstite stoico della vendita specializzata al dettaglio. Per lunghi chilometri si susseguivano: bar (uno ogni trenta metri), banche, centri estetici, centri per massaggi (sempre uno ogni trenta metri), agenzie di viaggi e immobiliari. Di una gastronomia o di un panettiere nemmeno l'ombra. E chiaramente non valgono le pasticcerie o le panetterie costosissime che il pane ce l'hanno ma è l'articolo che vendono meno, piene di torte dall'aspetto esotico, focacce soffici e pizzette di ogni tipo. Io cercavo il fornaio con la maglietta bianca e il grembiule ancora sporco di farina, quello che si è svegliato alle 3 del mattino e ha lavorato tutta la notte, con le occhiaie perenni e la faccia simpatica.
Niente di niente.
Sospese le ricerche, l'altro ieri, tornando dal lavoro, mi imbatto in una vetrina che mi lascia senza fiato. Un tripudio di verdura. Cassette piene zeppe di insalata e carciofi e peperoni che mi strizzano l'occhio al di là del vetro.
Mi fermo a rimirare. La luce calda e famigliare mi fa tornare indietro nel tempo.
Sopra le cassette di ortaggi, una mensola con le conserve e le passate di pomodoro fatte in casa e una signora in ciabatte con un bel grembiule rosa che serve le clienti parlando in dialetto.
Sembrava un miraggio. Mistofrutta, si chiama, questo angolo di paradiso. In via delle Correnti, il numero civico è troppo per la mia memoria. Aperto tutti i giorni, anche il sabato e la domenica mattina. Non avevo tempo di fare incetta di vegetali, la mia estasi mi aveva già fatto fare tardi.
Non è proprio dietro l'angolo, ma è sulla strada del lavoro. Il cestino della bici è capiente. Fatemi finire quel chilo di insalata in offerta presa al GS e vi aggiornerò su come è fare un salto indietro di almeno una decina d'anni!