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mercoledì 30 marzo 2011

Caronte dagli occhi di brace...

Traghettava le anime da una sponda all'altra del fiume Acheronte. Al liceo me lo immaginavo come un autista stanco e assonnato. Non corrisponde un granché alla descrizione dantesca, ma credevo che fare la spola per l'eternità non fosse un lavoro così elettrizzante. Lo figuravo un po' come quei conducenti di autobus che portano a scuola i ragazzini e la mattina sono già stanchi di chiasso e scherzi cretini. Anche perché, le anime appena defunte, non credo stessero composte e in fila ad aspettare di essere trasportate chissà dove.
Nella mia personale versione della Divina Commedia, la fermata dell'infernobus era gremita di cadaveri con lo zainetto che, a colpi di cerbottana caricata a palline di carta e saliva, si spintonavano sulla riva, rischiando pure di finire in acqua, aspettando la vecchia barchetta e il canuto autista, che con i suoi occhi fiammeggianti cercava di spaventarli perché stessero buoni.
A Milano c'era un posticino nascosto intitolato al buon capitano. Approdo Caronte, il nome ufficiale. Kasotto per gli abituè.
Sulla riva della Darsena, che nella metafora ben riuscita, rappresenta l'Acheronte, un piccolo casotto degli attrezzi occupato da un gruppo di giovani temerari, era la simbolica fermata per aspettare il traghettatore.
Così ogni fine settimana orde di anime dannate si ritrovavano lì, guardando ogni tanto l'altra sponda e cercando nel buio due fiammelle rosse.
All'incrocio tra Via Vigevano e Viale Gorizia, scavalcando il muretto che divide la strada dall'argine del naviglio, ci si ritrovava sul tetto di questo quadrato di mattoni e cemento. Una scala a pioli permetteva di scendere dal tetto e approdare all'Approdo.
All'interno fumo e birre dal frigo, gruppi alternativi che suonavano e gente ammassata in quei pochi metri quadri dal soffitto bassissimo. Fuori, la pace della Darsena, la luce del mega cartellone pubblicitario e qualche topo. La prima volta che ci sono stata ho pensato di essere davvero finita in un girone dantesco. Ma ci si abituava presto, persino ai topi. Era un posto che aveva il fascino delle cose proibite, dell'abbattimento dei divieti.
“Credo che un sogno così non ritorni mai più”, cantava Modugno. E infatti le cose belle finiscono e soprattutto quelle che non sono ne legalmente ne socialmente accettate. Nel 2008, dopo sei anni dalla sua apertura, il Kasotto chiude. Lo demoliscono per creare un nuovo enorme parcheggio.
Milano spietata e in continua evoluzione, non ha posto per un angolo di inferno.
Rimane a chi c'è stato il ricordo della sensazione di rubare la marmellata dalla credenza della nonna, la fortuna di aver preso parte alla folla di sfollati, alla moltitudine di “anime prave”.
Se passate dall'incrocio tra Via Vigevano e Viale Gorizia lasciate un fiore o un biglietto in memoria e guardate verso l'altra sponda, potreste avere la fortuna di vederlo arrivare, il vecchio Caronte, che torna al suo molo anche se ad aspettarlo non c'è più nessuno.

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